12 gennaio 2012

Quando muore una lingua


Con la scomparsa dei linguaggi tribali perdiamo una visione della vita, della morte e del mondo che non tornerà mai più.


Si estinguono come le specie animali, anzi, più velocemente. Le lingue muoiono al ritmo di una ogni 2 settimane. Si stima che, nel giro di un secolo, dei 7000 linguaggi oggi parlati ne rimarrà solo metà. A richiamare l'attenzione su questa «strage» è l'organizzazione Survival International. Nel 2008 è scomparsa l'ultima persona che custodiva l'Eyak, parlato in Alaska. L'anno scorso è stato il turno di Boa Senior, che si è portata con sé la lingua di una delle culture più antiche del mondo, quella dei Bo, che hanno abitato le Isole Andamane per 65.000 anni. 

Si contano sulle dita di una mano gli ultimi detentori dello Yurok della California, dello Yawurudell'Australia e del Siksika, parlato dai Piedi Neri dell'America del Nord. L'Innu, in Canada, perde terreno per la «concorrenza» di inglese e francese, insegnati nelle scuole. La scomparsa dei linguaggi tribali non documentati implica, per il linguista Daniel Everett «una perdita inestimabile di espressione di humour, conoscenza, amore, e la gamma intera dell'esperienza umana. Un'antica tradizione, un mondo di soluzioni alla vita è perso per sempre. You can't Google it and get it back». Non puoi digitarlo su Google e riaverlo indietro. «Quando noi perdiamo una lingua" spiega K. David Harrison nel libro When Languages Die, «perdiamo secoli di pensiero umano riguardo al tempo, alle stagioni, alle creature del mare, alle renne, ai fiori commestibili, alla matematica, ai paesaggi, ai miti, alla musica, allo sconosciuto e al quotidiano». 
Dall'India all'Oregon, dalla Bolivia alla Siberia, Harrison viaggia per registrare le lingue in pericolo, con l'Istituto Living Tongues per le Lingue in via di estinzione, di cui dirige la Ricerca. Nelle lingue tribali si nascondono i segreti per la sopravvivenza in ambienti ostili e infinte conoscenze sulla natura e sul clima. Basti pensare che gli Inuit hanno molti modi per nominare i vari tipi di neve, ma non un'unica parola per riferirsi a essa. Lo stesso flusso della Storia è registrato diversamente dalle lingue orali e un termine può racchiudere molto più del suo significato. In Ghana, scriveRyszard Kapuscinski, la tribù dei Nankani sfregia il viso ai neonati, per renderli merce poco desiderabile agli occhi degli schiavisti bianchi. Per questo popolo la parola brutto equivale a libero.

Ilaria Lonigro
D - la Repubblica 12.01.2012

6 commenti:

  1. Credo sia una problematica poco valorizzata.
    Ma d'altronde, in questo periodo di ritmo, stress, velocità.. c'è poco spazio, forse, per le lingue in via d'estinzione.
    Grazie per il suggerimento!

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  2. Tanto triste quanto interessante questo articolo. Come fare per invertire la tendenza però?

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  3. Io penso che la "soluzione" stia tutta nella Ricerca (con la R maiuscola!) che, anche se incapace di mantenere in vita una lingua che è naturalmente in via d'estinzione, può, almeno in parte, far sì che quella stessa lingua non venga sepolta dal disinteresse.

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  4. Questo sì, in effetti. Quindi siamo nelle mani degli antropologi e dei linguisti. Ma invece l'estinzione di una lingua come fatto in sé? Corso naturale della storia? Secondo me non sempre, anzi, quasi mai.

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  5. mmm, penso che se una lingua si estingua ci siano delle ragioni dietro. per la maggior parte penso siano lingue di popoli conquistati e oppressi (come le lingue amerinde).. però non credo che sia il caso del 100% delle lingue, questo.
    è un bel discorso, che parte dalla globalizzazione e arriva alla valorizzazione della comunità locale.
    Perchè credo che effettivamente, proprio in questi momenti di massima mondializzazione, ci sia più attenzione a queste realtà, ma purtroppo non da istituzioni o banche mondiali, ma dalla comunità civile. (vd i mercati equo e solidale o realtà di questo tipo).

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  6. Sul mercato equo-solidale nutro delle perplessità. Se trovo un articolo interessante che avevo trovato a riguardo prometto di pubblicarlo qui.

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